Progetto INFORMAFRICA


Ridurre il "digital divide" portando la nostra CONOSCENZA
in modo ETICO e RESPONSABILE, ma non i nostri "modelli di vita"

venerdì 31 dicembre 2010

Conclusioni

La cosa più difficile da spiegare è il perché di questo viaggio: mi si chiede cosa spero di poter “risolvere”, in termini occidentali, in un Paese tanto diverso e tanto “indietro”... Cui prodest?
Credo di dover concludere proprio con la risposta a questa domanda, perché altrimenti troppe persone rimarrebbero con l'idea di una insana follia o del desiderio di evadere dalla realtà.

Quando si va in Africa, sarebbe meglio dire quando ci si immerge in realtà tanto diverse dalla nostra, ma soprattutto in situazioni in cui manca totalmente il superfluo, che costituisce il 90% dei nostri consumi e delle nostre “pseudo-necessità”, e scarseggia fortemente il necessario vitale, che noi non sappiamo più quale realmente è, ci si trova ad affrontare la vita quotidiana dovendo abbandonare le nostre abitudini e fare un'operazione di adeguamento non da poco.

Un lungo periodo di permanenza in queste condizioni ambientali ci trasforma: già dopo un mese, a me è successo la prima volta nel Sahel, in Burkina-Faso, quando si riparte, ci si rende conto che domani si ricomincia ad avere tutto quanto serve per vivere e tutto il superfluo per sentire soddisfatte esigenze inutili. Per contro si capisce anche che la gente con cui si è condiviso il tempo, il mangiare poco, il bere diverso, la polvere, il vestito sempre uguale, e tutta la infinità di quelle che per noi sono “mancanze”, “assenze”, la gente che abbiamo incontrato rimane lì con il suo niente, magari con la speranza di rivederci e che si ritorni con qualcosa di più della nostra cultura, delle nostre idee e del nostro superfluo...
Quando il periodo di permanenza si allunga, ci si adegua, mente e corpo, e ci si rende sempre più conto della inutilità di tante cose e della quantità di superfluo che abbiamo nel nostro mondo occidentale.
E alla fine diventa difficile lasciare la semplicità della vita del villaggio, la semplicità della gente, il silenzio di strade senza motori, la bellezza dei tramonti senza luci artificiali, il calore umano dei fuochi notturni attorno a cui vivono le famiglie piene di bambini... quelli che ti chiamano “hallo! Hallo!” quando passi, per poterti stringere la mano o semplicemente toccare il braccio bianco e peloso...
Bisogna passare una notte di luna piena camminando per le strade sterrate tra le capanne, con i soli rumori degli animali notturni, e la sola luce della luna, per rendersi conto del prezzo che paghiamo alle nostre “comodità”, quelle per cui siamo disposti a prostituirci o ad accoltellare il vicino...
Ci si abitua a tutto, veramente a tutto, e nulla manca, nemmeno il rapporto affettivo e sessuale: si sa che non si può, punto. Ci sono donne e uomini bellissimi, ma sono da guardare, da conoscere per quel che sono e non per quello che ti potrebbero dare fisicamente. E' molto più semplice di quanto pensiamo: siamo molto più vicini allo spirito, quando è il vuoto che ci circonda.

Ogni volta che torno in Italia, qualcuno mi chiede se mi è venuto il “mal d'Africa”: mi è molto difficile rispondere in modo semplice, sì o no, per diversi motivi.

Se per “mal d'Africa” si intende la nostalgia dei posti, delle persone, delle esperienze, forse viene, ma, avendo girato molti posti, molte nazioni, conosciuto molti popoli anche diversi, direi che sarebbe la normalissima nostalgia di quando si lascia qualcuno o qualcosa che ha provocato in noi gioia e piacere.
Il desiderio forte di tornare per rimanere là lo provo sì, ogni volta, come il dispiacere di dover tornare in Italia lasciando i bimbi neri o i giovani che vedi crescere e maturare tra una vacca e un computer.
Ma non credo che questi sentimenti e queste sensazioni si possano definire “mal d'Africa”: mi ripeto, forse,  ma allo stesso modo ho nostalgia di Vienna e di Monaco di Baviera, dove ho passato momenti belli ed indimenticabili della vita.

Il “mal d'Africa” lo sento come il senso di colpa che chiunque dovrebbe avere pensando a ciò che abbiamo visto e per cui tanto poco abbiamo fatto. Visto positivamente diventa la nostra necessità morale di tornare e di fare qualcosa, qualcosa di più per farci perdonare le omissioni di tanti secoli di storia in cui abbiamo colonizzato e depredato regioni e popoli rendendoli sempre più poveri rispetto a noi.
  
Bisogna tornare, certo, ma non andiamo a “civilizzare”, non esportiamo il nostro modo di vivere, non portiamo, per l'amore di Dio e dei poveri che vogliamo aiutare, il nostro consumismo capitalista, e nemmeno il nostro socialismo solidale!
Dobbiamo andare in Africa, come in qualsiasi altro paese “sottosviluppato”, come li definiamo noi “superiori”, con l'umiltà di chi sa che troverà una società per certi aspetti meno sviluppata, ma soprattutto delle persone come noi, con le sue necessità primarie ancora veramente autentiche, con la sua non-cultura, che possiamo aiutare a crescere gradualmente, con le sue abitudini, che non dobbiamo estirpare mettendole in un televisore e facendole diventare materiale pubblicitario.
Gli interventi necessari più urgenti, a mio parere, sono quelli sanitari, con l'intervento soprattutto formativo della popolazione, tendente a migliorare il livello di prevenzione di certe malattie, e gli interventi culturali, con l'apertura di scuole elementari per alfabetizzare e dare i fondamenti per la prima comunicazione, orale e scritta, ma anche per dare una prima infarinatura sulla storia, le arti ed i mezzi di comunicazione.

Come diceva padre Daniele Comboni, bisogna aiutare l'Africa “attraverso l'Africa”, quindi con le sue capacità, le sue persone, le sue tradizioni, senza voler forzare cambiamenti radicali che noi abbiamo fatto in cento anni e che pensiamo di poter far fare a loro in dieci.

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